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Scienza delle mie brame - terza parte

La chimera dei dati oggettivi.



Nel precedente articolo (Scienza delle mie brame - seconda parte) ho provato a mettere in evidenza, in modo sintetico, come la scienza sia perfettamente democratica: lo è nei principi epistemologici, nel dibattito e nelle finalità. Le affermazioni di alcuni scienziati (vedi Mario Tozzi) secondo cui la scienza non è democratica sono pertanto imprecise.

Altrettanto imprecise (per essere eufemistici) sono le affermazioni secondo cui i dati risultanti da una ricerca scientifica siano l'unica cosa che conta nel produrre autentica conoscenza. Tale errore (che invece rappresenta la vera caduta arrogante e pseudo-autoritaria di certo pensiero pseudo-scientifico) si sostanzia in tre punti fondamentali:
  1. I dati (così come i fatti) non sono mai autoevidenti, ma hanno sempre bisogno di interpretazione;
  2. I dati non raccontano mai verità assolute, in quanto non è assoluta la loro oggettività e in quanto la loro risultanza dipende sempre dalle specifiche modalità (paradigmi, metodi, strumenti, contesti e procedure) con cui viene condotta una ricerca;
  3. I dati non sono né il punto di partenza né il punto di arrivo definitivo dei processi conoscitivi.
Il primo punto è alquanto semplice da comprendere, e chi conosce almeno un poco il dibattito scientifico sa perfettamente che attorno all'interpretazione di dati si scatenano spesso e volentieri tempeste dialettiche all'interno della comunità degli scienziati. D'altronde, più di un secolo fa, già Nietzsche aveva provato a chiarire la faccenda, ovvero che i fatti non hanno alcuna validità conoscitiva se non vengono interpretati. Sono le interpretazioni che conferiscono a un fatto lo statuto di fenomeno cui è possibile attribuire significato, per cui i dati scientifici esistono solo nel momento in cui qualcuno li ha fatti emergere e li ha interpretati.

Il secondo punto indica che, oltre alle modalità interpretative, bisogna considerare tutta una serie di altri fattori che intervengono a determinare la produzione di dati grazie alle ricerche empiriche e/o sperimentali.

Il mito della razionalità scientifica assoluta si fonda sull’assunto, più o meno implicito e ingenuo, che sia possibile eliminare i fattori culturali, psicologici ed esperienziali sui quali lo scienziato non ha pieno controllo. Non solo. Tale mito (realismo, oggettivismo e universalismo) si fonda anche sulla considerazione automatica che i fenomeni studiati siano perfettamente intellegibili, a patto di mettere a punto un metodo razionale perfetto.

Ma perché uno scienziato sceglie un’ipotesi di partenza piuttosto che un’altra? Perché sceglie un metodo, una prospettiva, un sistema di riferimento, delle variabili e degli strumenti e non altri? E perché, a partire dagli stessi dati iniziali oppure ottenuti dopo esperimenti e osservazioni rigorosi, scienziati diversi producono valutazioni e teorie differenti?

È evidente che se esistesse una razionalità assoluta, indipendente dall’osservatore, tutti gli scienziati dovrebbero giungere alle stesse identiche conclusioni dopo aver fatto le stesse identiche scelte metodologiche e aver seguito gli stessi identici procedimenti di pensiero.

Mi si potrà ribattere che è proprio quello che succede quando si giunge alla formulazione di una legge di natura che mette d’accordo l’intera comunità scientifica. Infatti questo è uno degli aspetti grandiosi della narrazione scientifica, riuscire, almeno saltuariamente, a superare le barriere della soggettività psico-corporea, unificare le menti, rendere partecipi tutti gli esseri umani di una medesima verità, di una medesima e straordinaria narrazione.

Un fatto altrettanto grandioso, però, è che molto più spesso accade il contrario. E arriviamo al punto tre: i dati non sono mai un punto di arrivo o di partenza. I dati di una ricerca vengono dopo altri dati di altre ricerche e dopo altre ipotesi e teorie precedenti.

In sostanza, guai se nel dibattito scientifico non ci fossero diversità di vedute, interpretazioni, ipotesi e teorizzazioni. Guai se non ci fossero narrazioni differenti che competono tra loro e a volte si fondono o si correggono reciprocamente. Questo accade perché le narrazioni scientifiche sono sempre delle approssimazioni (cfr. Popper, Kuhn). Tutte le teorie scientifiche che fino a oggi hanno dimostrato di essere corrette, in verità, sono solo delle approssimazioni molto buone della realtà, ovvero narrazioni migliori di altre. E lo sono proprio in quanto narrazioni che non potranno mai coincidere con la realtà in sé. Gli stessi dati empirici e sperimentali non sono la copia carbone della realtà, ma solo delle estrapolazioni-approssimazioni-semplificazioni che consentono agli studiosi di produrre modelli interpretativi efficaci ma quasi mai esclusivi.

La teoria di gravitazione universale di Newton è una approssimazione che funziona in determinate condizioni. La teoria gravitazionale di Einstein (conosciuta come relatività generale) è una approssimazione che corregge la teoria di Newton, ampliandone le condizioni di applicabilità. E così via. La razionalità scientifica, quindi, è un corredo metodologico che, nel migliore dei casi, ci permette di delineare narrazioni efficaci della realtà, laddove efficace non vuol dire esaustiva né tanto meno assoluta.

Tanto è vero che, quando si presentano articoli scientifici a seguito di ricerche condotte, difficilmente tali articoli troveranno un favore unanime e anzi si aggiungeranno a una costellazione di dati e ulteriori modelli interpretativi che coabiteranno per chissà quanto tempo, in attesa che spunti il vincitore. O che, come dicevo più sopra, finiscano con il fondersi o correggersi reciprocamente.

L’ossessione di molti fisici teorici e cosmologi (forse la maggior parte) circa l’elaborazione di una teoria di grande unificazione (la cosiddetta Teoria del Tutto), dipende dal desiderio di giungere a una verità completa e perfettamente razionale del funzionamento dell’universo. Una verità che comprenda anche la domanda ultima: perché l’universo è proprio così com’è?

Qui si sfocia inevitabilmente nella metafisica, nella pura speculazione filosofica. La speculazione filosofica non è assolutamente un peccato, al contrario è il fondamento di qualunque scoperta e di qualsivoglia progresso scientifico; la speculazione filosofica è il primo grande banco di prova del pensiero razionale.

Gli scienziati spesso si accalorano quando si fa notar loro che stanno facendo della speculazione, ma questo non dovrebbe essere inteso come un insulto (a dire il vero, quando a dirlo è uno scienziato nei confronti di un altro scienziato, l’intento è quanto meno quello di sminuirne le ipotesi e le teorie, se non proprio di insultarlo).

Ogni volta che si riflette su una questione e si tenta di proporre delle ipotesi da passare al vaglio del metodo scientifico si fa filosofia. La filosofia è quel particolare tipo di narrazione che, tra le altre cose, funge sia da base concettuale ed epistemologica per la ricerca scientifica, sia da continuo pungolo e correttore man mano che la ricerca progredisce. In altri termini, filosofia e scienza sono intrecciate in modo inestricabile, e non riconoscerlo da parte degli scienziati può solo nuocere alla loro attività e alle loro straordinarie narrazioni.

Da un punto di vista della narrazione scientifica, quindi, l’errore di fondo può comparire non se essa si avventura nella speculazione filosofica, bensì se si lascia attrarre dal dogmatismo e quindi dallo scientismo. La scienza, invece, guidata dalla filosofia (come auspica per esempio il grande fisico italiano, Guido Tonelli) deve fornirci indirizzi di ricerca percorribili, ipotesi plausibili, dati su cui riflettere e dibattere, e infine teorie solide basate su certezze circostanziate. In tutto questo non c'è nulla di assoluto e definitivo.

Ma la scienza non potrà mai eliminare la biografia dello scienziato, né i paradigmi socio-culturali specifici ai quai ogni scienziato si rifà senza neppure esserne pienamente consapevole. Studiosi e ricercatori hanno idee, valori, gusti, desideri, interessi e persino nevrosi che li guidano nella loro attività. La soggettività, la biografia psico-sociale dello scienziato è ineliminabile al pari di quella di chiunque altro.

Dunque: l'immaginazione, l'incertezza, le differenze interpretative non devono essere affatto percepite dagli scienziati come aspetti negativi, da combattere in nome di una impossibile oggettività assoluta dei dati e dei fatti empirico-sperimentali. Al contrario, immaginazione, incertezza e interpretazione sono l'unica possibilità di giungere a conoscenze scientifiche. Il vero male sta altrove, in quella che Deneault (filosofo canadese e docente di Scienze politiche) definisce "mediocrazia".

Il male della scienza (mediocratica) lo fa il positivismo ingenuo agghindato di realismo e universalismo irraggiungibili; lo fa un sistema che rischia sempre di cadere nell'autoreferenzialità, nell'appiattimento conservatore e baronale, e nella logica di casta (è qui che la comunità scientifica, e non il metodo scientifico, dimostra a volte bislacche tendenze antidemocratiche); lo fa una indebita ingerenza da parte di finanziatori privati dediti al profitto che intendono "veicolare" la ricerca e i suoi stessi risultati per fini particolaristici e meramente economici.

Il male della scienza lo fa anche il cosiddetto analfabetismo di ritorno (o funzionale) che purtroppo non lascia immuni neppure gli scienziati e i presunti esperti di qualunque disciplina. Insomma, un titolo di studio non è sempre garanzia di competenze e conoscenze reali, né tanto meno di corrette capacità interpretative.

Ecco perché il dibattito e le chiacchiere, che tanto fanno agitare Mario Tozzi, sono l'unico vero rimedio alle possibili distorsioni della ricerca scientifica. Il dibattito aperto e la divulgazione del sapere sono anche antidoti ai vari "terrapiattismi" contemporanei, perché è proprio grazie al dibattito che (anche con il ricorso a dati scientifici correttamente interpretati) le argomentazioni solide riescono a sconfiggere quelle deboli o addirittura inesistenti.

(continua...)


Riferimenti essenziali:

Carlo Sini, I filosofi e le opere, Edizioni Principato, Milano 1979.
Guido Tonelli, Cercare mondi, BUR - Rizzoli, Milano 2018.
Karl Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 2010.
Alain Deneault, La mediocrazia, Neri Pozza, Vicenza 2017.
Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 2009.

Commenti

  1. La lettura del post spalanca le porte , con condivisione da parte mia, al relativismo, matrice della cultura decadentista che ricusa i dogmi, ponendo fine all'età dell'oro delle certezze. D'altra parte, proprio Nietzsche preconizzo' la morte di Dio (Così parlò Zarathustra), alludendo alla fine dei valori assoluti e infrangendo le certezze delle scienze tradizionali. Ritengo che proprio Copernico possa essere considerato già un simbolo del "relativo" , con quel mutamento epocale che incrino' certezze giudicate sacre ed inviolabili, determinando, così, il crollo del mito della scienza dispensatrice di verità uniche, assolute, incontrovertibili. Emblematica è la frase "Maledetto sia Copernico!", messa da Pirandello, figlio del relativismo, sulla bocca di Mattia Pascal.
    Anche il concetto di "mediocrazia" suscita grande interesse con l'ambivalenza che lo caratterizza. Da una parte, infatti, la mediocrità può avere una connotazione positiva in quanto situata su un gradino superiore rispetto alla "stupidità", dall'altra essa riconduce ad un certo conformismo, nuova religione della nostra società, e costituisce la chiave per il raggiungimento di uno pseudosuccesso e per la pseudorealizzazione di una volontà di potenza. Il mediocre non è mai scomodo, non mette mai in discussione il precostituito. Se quanche individuo cerca di liberarsi dalla "forma" della mediocrità rischia di essere giudicato, per dirla con Pirandello, "un violino fuori di chiave", stonato nel generale concerto della società.

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